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Uber testa le corse per sole donne: come funziona e perché può cambiare il modo di viaggiare

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Negli Stati Uniti parte la sperimentazione delle corse Uber riservate a donne autiste e passeggere, per rispondere a migliaia di segnalazioni legate a molestie e insicurezza durante i viaggi

Una mano sul telefono, lo sguardo alla targa. Un messaggio alla sorella: “Sono salita ora, ti scrivo quando arrivo”. Per milioni di donne nel mondo, prendere un’auto con conducente – di giorno o di notte – non è mai solo un passaggio da A a B. È un momento carico di attenzione, piccoli gesti di autodifesa, calcoli silenziosi.
Uber ha deciso di fare un passo. Uno vero, concreto. A partire da agosto, sperimenterà nelle città statunitensi di Los Angeles, San Francisco e Detroit una nuova opzione: corse tra sole donne.

Chi guida potrà decidere di trasportare soltanto passeggere. Chi viaggia potrà chiedere, se lo desidera, una conducente donna. Non è una trovata di marketing, ma una risposta. Alle segnalazioni, alle denunce, alle testimonianze — migliaia — che raccontano molestie, battute indesiderate, avances e  paure taciute. Solo negli Stati Uniti, oltre 2.000 cause legali sono state intentate contro la piattaforma da donne che si sono sentite violate, spaventate, non ascoltate.

«In tutto il Paese, donne al volante e donne sui sedili posteriori ci hanno detto la stessa cosa: vogliamo sentirci più libere. Le abbiamo ascoltate», ha dichiarato Camiel Irving, Vicepresidente di Uber per Stati Uniti e Canada.

L’idea non è arrivata dai piani alti, ma dalle strade. Dalle autiste, che da anni chiedono la possibilità di evitare clienti uomini, soprattutto di sera, quando le situazioni diventano più imprevedibili.

Molte donne che lavorano con Uber scelgono di non accettare corse in certi orari, in certe zone. Questo significa meno corse, meno guadagni, più abbandoni. Secondo i dati della piattaforma, le donne rappresentano solo il 20% dei conducenti, e sono più propense a lasciare il lavoro entro sei mesi.

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Un gesto piccolo, ma rivoluzionario

La funzione, chiamata Women Rider Preference, permetterà alle utenti di selezionare una conducente donna, e viceversa. È un gesto semplice, non obbligatorio, non esclusivo, non divisivo. È una possibilità in più, come scegliere il sedile nel treno o la stanza d’albergo più silenziosa. Eppure, ha già scatenato reazioni durissime. Soprattutto online.

Su X (ex Twitter), non sono mancati gli attacchi: accuse di “discriminazione inversa”, commenti sessisti, prese in giro. C’è chi ha chiesto provocatoriamente se anche gli uomini potranno scegliere solo conducenti maschi, o se si potranno escludere «donne che si identificano come uomini».

Domande che, in parte, toccano nodi reali: come verrà gestita l’identità di genere? Uber per ora non ha chiarito. Ma intanto, ha fatto qualcosa che mancava: ha rotto il tabù del bisogno di sicurezza delle donne, trattandolo non come una percezione soggettiva, ma come una condizione strutturale da rispettare.

E in Italia?

Nel nostro Paese, la funzione non è ancora disponibile. Ma il tema è presente, anche se più silenzioso. Chi usa servizi come Uber, Bolt, Free Now lo sa: le donne viaggiano spesso da sole, di sera, tornando da una cena di lavoro o da un turno in ospedale. E non tutte si sentono tranquille. Alcune startup locali hanno provato a offrire soluzioni analoghe — con conducenti solo donne, per sole donne — ma con risultati ancora marginali.

Introdurre una funzione simile non significa escludere, ma restituire libertà di scelta. Significa mettere in discussione l’idea che l’uguaglianza passi sempre per la simmetria assoluta. In certi casi, dare più spazio a chi ha meno sicurezza non è un privilegio: è un riequilibrio.

Uber ha già attivato la preferenza di genere per le autiste in oltre 40 Paesi, dall’Arabia Saudita al Messico, dall’Australia alla Francia. In Italia potrebbe arrivare nei prossimi mesi, se il test negli Stati Uniti darà i risultati sperati.

Ammesso — e non concesso — che certi atteggiamenti non dovrebbero esistere nemmeno in teoria, la realtà ci ricorda ogni giorno quanto siamo ancora lontani da quella normalità. Per questo, permettere alle donne di scegliere con chi viaggiare non è un favore né una concessione: è un passo concreto verso una mobilità più giusta. Dove la sicurezza non sia più negoziabile, ma garantita.

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